Chinque abbia visto come ho arredato casa, sa che ho una passione per i babau, i mostri sotto al letto, gli spaventapasseri, i creepypasta, le leggende metropolitane.
Mi piacciono le storie del terrore, con le metafore e talvolta le catarsi che sono in grado di veicolare.
Tiziano Sclavi, autore di Dylan Dog, dichiarava “io non sono né Dylan né Groucho, io sono i mostri”. In fondo, la poetica della sua fortunata creatura editoriale era tutta racchiusa in questa frase.
La virtù del mostro è quella di emergere dal letto, dalle pieghe di una realtà rassicurante, mettere in crisi le nostre certezze, ricordarci la nostra fragilità e vulnerabilità, il nostro rimosso, direbbero i colleghi psicoanalisti. Mi viene in mente l’immortalità di Jason Vorhees, di Freddy Krueger, di Michael Myers, dei babau immortali del cinema degli anni ’80: potevi sconfiggerli per un po’, ma a che prezzo, e nel film successivo sarebbero tornati a rincorrerti con i loro machete e i loro guanti dagli artigli affilati. Mi piacciono i film dell’orrore, perché parlano della nostra vita.
Ecco, la vicenda del bambino di 11 anni gettatosi dal balcone a Napoli mi ha messo tristezza. Non solo per l’evento in sé, ma per il modo in cui la stiamo digerendo in queste ore. Il mostro emerge tra le pieghe di un creepypasta, impalpabile e poco definito, ma il rimosso rimane lì.
“Scusate mamma e papà, devo seguire l’uomo col cappuccio nero” è una frase inquietante, che colpisce alla schiena. Talmente efficace, nella sua semplicità, da catturare tutta la nostra attenzione. Si parla di balene blu, di assassini truccati da Pippo che adescano bambini sui social network spingendoli a compiere atti autolesionistici che culminano nel suicidio.
Se fosse un documentario su Netflix, sarebbe una storia appassionante. Non biasimo l’interesse che desta, io stesso sto scrivendo questo articolo a riguardo. Siamo umani, concediamocelo.
Torno alla poetica del Dylan Dog di Sclavi, alla costruzione sempre identica delle sue storie. All’inizio, c’è un assassino o una presenza soprannaturale che inizia a mietere le sue vittime. Qualcuno bussa alla porta dell’indagatore dell’incubo, che riluttante accetta l’indagine. Nel finale, le soluzioni sono solitamente due: o il carnefice non è colui che ci aspettavamo, e scopriamo che il vero assassino è in realtà una figura che reputavamo al di sopra di ogni sospetto, secondo un meccanismo tutto sommato classico di una certa narrativa gialla e thriller; oppure scopriamo che il carnefice ha sì un volto e un’identità prevedibili, ma che le sue vittime hanno contribuito in qualche modo a crearlo, macchiandosi di atti ben peggiori dei suoi. Chi è il vero mostro, ci chiede Sclavi? Io. Noi.
In questo senso Io sono i mostri, nel senso che i mostri di Sclavi sono sia vittime che carnefici, e il Male è nella struttura, nei rapporti sociali che sono alla fine sempre rapporti di forza, quelli che hanno bisogno di un capro espiatorio (un portatore del sintomo, direbbero i colleghi sistemici) affinché la struttura possa ripetere identico il suo rituale, ogni volta, giorno dopo giorno, albo dopo albo. Io sono i mostri, perché i mostri ci parlano di noi, siamo noi.
Ed è in fondo questo ciò che mi mette tristezza della vicenda dell’uomo con il cappuccio nero. L’attenzione morbosa ad un mostro che nel momento in cui scrivo non sappiamo neppure se esista o se c’entri qualcosa, che possa darci una spiegazione. Un tentativo di semplificare, in modo apparentemente spaventoso ma in realtà rassicurante, un fenomeno spaventoso e complesso come il suicidio infantile.
Ci colpisce che un mostro sconosciuto possa spingere un ragazzino di 11 anni di un quartiere bene, che tutti i giornali dipingono bene integrato, sportivo, pieno di amici, a porre fine alla sua vita. Per carità, magari c’è davvero la balena blu, questa volta. Magari ha le sembianze della foto rubata di un tecnico degli effetti speciali truccato da Pippo, magari un’altra ancora. Può esserci come non esserci, ma alla fine della giornata, è davvero questa la domanda che conta?
Le persone si aspettano risposte dagli psicologi, ma in questi anni ho imparato che il vero talento dello psicologo consiste nel porre buone domande, che rendano possibile alle persone trovare buone risposte.
Quindi è chiaro che non ho la risposta alla domanda, odiosa e gossipara, “perché un ragazzino”, anzi, “perché quel ragazzino ha deciso di buttarsi dal balcone?”, anche se sono sicuro che alcuni colleghi molto più illustri di me si affretteranno a dare un parere, il loro parere, ad uso e consumo di vari tipo di schermo.
Forse qualcuno dirà che è colpa della società, delle famiglie, degli smartphone. A me trovare la risposta poco importa, perché la domanda da cui parte è infeconda, ciò che genera è un pourparler, una chiacchiera da salotto.
E allora ciò che mi chiedo è quanta strada abbiamo fatto per diventare così abili nel rimuovere il dolore dai nostri discorsi, dalle nostre narrazioni, da potere credere che basti una storia dell’orrore ben raccontata a decidere per noi il nostro destino.
A prescindere da ciò che può essere realmente successo (ripeto, ho studiato dieci anni per non saperlo), quello che mi colpisce è, ancora una volta, la volontà di non inserire la sofferenza nel nostro frame, come se di fronte all’”avere undici anni”, vivere in “un quartiere bene”, con “tanti amici” e “bene integrato” diventasse proibito anche solo pensare all’esistenza di qualcosa che non vada.
I mostri delle storie dell’orrore sono lì a ricordarci che la sofferenza, il dolore, il senso di colpa, la paura stessa che incarnano, esistono. E se non abbiamo il coraggio di guardarli negli occhi, se li gettiamo ai margini delle nostre narrazioni, loro non potranno più proteggerci. A differenza dei mostri reali, i mostri delle narrazioni ci spaventano perché vogliono salvarci. Si nascondono nel buio affinché il buio ci faccia paura, e possiamo accendere la luce.
Ma se noi facciamo l’opposto e prendiamo la realtà per ridurla alle categorie semplici di un creepypasta che ci rassicuri con la sua prevedibile linearità, allora è il buio ad avere paura dei mostri, e a noi non rimangono più luci da accendere.