Non sono un angelo e non pretendo di esserlo. Non è uno dei miei ruoli. Ma non sono nemmeno il diavolo. Sono una donna e una seria artista, e gradirei essere giudicata per quello.
(Maria Callas)
Tempo fa avevo scritto una piccola infografica sulla mia pagina Instagram di divulgazione psicologica, Spill the Brain, in cui parlavo di timidezza, introversione e fobia sociale. Tutti temi connessi all’argomento, più ampio, del giudizio.
Purtroppo il formato di Instagram non è l’ideale per esprimere concetti complessi come possono essere quelli di natura psicologica. O, per meglio dire, concetti che si prestano ad essere declinati secondo una vasta gamma di sfumature.
Penso sia questa la difficoltà maggiore del parlare di psicologia, che è, per altri versi, una materia che tutti noi padroneggiamo, avendo a che fare con noi stessi, i nostri pensieri e le nostre emozioni in ogni giorno della nostra vita.
Eppure, leggerci dentro non sempre è facile. Quante volte non siamo in grado di dare un nome alle emozioni che proviamo? Quante volte non riusciamo a distinguere i mille fili colorati che compongono la matassa della nostra ansia, o i mille fili in sfumature di bianco, nero e grigio che compongono quella del nostro senso di vuoto?
Questo è vero soprattutto per chi di noi è cresciuto in un ambiente che tendeva a ridefinire quello che provavamo, prima ancora che avessimo un linguaggio per definirlo.
Un aspetto importante del ruolo genitoriale, spesso ignorato a livello di senso comune, è quello di aiutare la bambina o il bambino a dare un nome alle emozioni che prova.
Ascoltare quello che senti, e rispecchiarlo. Validarlo attraverso un ascolto attento.
Aiutarti a dare un nome a quelle lacrime, ad esempio. Che spesso significano tristezza, a volte paura, a volte addirittura gioia.
Aiutarti a capire cosa le ha scatenate.
E poterti dire “ok, va tutto bene. Ci sono qua io.”, che significa “quello che provi ha importanza. Guardiamo insieme di cosa si tratta.”
Non sempre è così. A volte questo compito non è così semplice. Anche i migliori genitori possono avere difficoltà a comprendere come gestire le semplici, irrequiete emozioni dei propri figli.
Talvolta, una strategia può essere quella di ridefinire le emozioni del bambino secondo le proprie sensazioni o aspettative di genitore.
“Perché fai i capricci? Ti piace così tanto andare a trovare la zia”.
“Mangia il gelato al pistacchio, che ti piace tanto”.
“Non sei davvero divertito, questo cartone animato è così stupido!”.
A noi sembra scontato avere la padronanza di quello che sentiamo (forse). Ma, come bambino, può essere straniante ricevere risposte del genere, quando magari sai che con la zia ti annoi, il cioccolato è il tuo gusto di gelato preferito e quel cartone animato è davvero divertente…
Un bambino molto piccolo non è ancora perfettamente consapevole di quello che gli piace, di quello che prova, quando ancora non ha sviluppato un linguaggio adeguato non solo ad esprimerlo, ma anche a discriminare tra le diverse sfumature, che spesso mettono in difficoltà anche noi adulti.
Tuttavia, esiste un compito che i bambini, sin dalla nascita, sono evolutivamente programmati per fare: mantenere la migliore vicinanza possibile con la figura di riferimento, non solo fisica ma anche emotiva. Si tratta di un meccanismo selezionato dall’evoluzione per massimizzare le possibilità di sopravvivenza di un organismo ancora indifeso e bisognoso.
E in un ambiente che tende costantemente a definire il vissuto del suo membro più vulnerabile, spesso la strategia migliore diventa pertanto quella di sintonizzarsi il più possibile con le aspettative della figura di riferimento, per non deluderla e massimizzare così le possibilità che questa non ci abbandoni e si prenda cura di noi.
“Se la mamma dice che mi piace andare dalla zia, le credo” potrebbe essere la parafrasi di ciò che la bambina o il bambino pensa in questa situazione.
Crescendo in questo tipo di ambiente, diventiamo così sempre più capaci di interpretare le aspettative degli altri, di sintonizzarci su di esse, ma al costo di una maggiore incapacità di leggere i nostri stati interni.
Iniziamo infatti a ignorare quei segnali di attivazione somatica che indicano come, forse, andare dalla zia non sia proprio la cosa che ci va di fare questo pomeriggio… Quei crampi allo stomaco, quel senso di irrequietezza, quell’improvvisa voglia di correre e scappare via, fino a vere e proprie somatizzazioni.
Leggere l’altro, paradossalmente, diventa un compito semplicissimo, mentre leggere noi stessi un compito quasi impossibile.
Impariamo questo meccanismo con i nostri genitori o comunque con le figure che si prendono cura di noi. Successivamente, coinvolgerà tutte le persone con cui abbiamo a che fare, o perlomeno quelle che riteniamo significative.
In quest’ottica, il giudizio esterno non costituisce più soltanto una valutazione più o meno condivisibile sul nostro operato, ma rappresenta lo strumento in grado di definire quello che stiamo provando, il nostro valore e, in ultima misura, chi siamo.
“Sono un bambino a cui piace andare a trovare la zia. Questo fa di me un nipote meritevole, perché la mamma è orgogliosa di me. È ciò che sono.”.
Nel momento in cui sento di aderire alle aspettative altrui, proverò un senso di benessere, protezione e sensazione di adeguatezza, ma a discapito della mia autenticità. In caso contrario, sperimenterò vergogna e spaesamento.
Questo meccanismo non riguarda solo l’infanzia, ma prosegue in adolescenza e nell’età adulta. Può riguardare scelte quotidiane quali ad esempio il colore e il tipo di vestiti da indossare, ma nei contesti più rigidi anche decisioni di vita importanti, quali quelle inerenti gli studi da intraprendere e addirittura la scelta di un determinato partner.
Questo è il motivo per cui, quando il giudizio esterno diventa l’unico strumento che abbiamo per orientarci nella vita, l’altro viene spesso percepito come invadente e intrusivo. E’ come se una parte di noi si ribellasse, forse quella parte connessa con i nostri reali bisogni ed emozioni, che pure sono difficili da leggere.
Spesso la difficoltà di leggere i propri stati interni viene avvertita come senso di vuoto, specialmente quando non è presente un’altra persona sulla quale sintonizzarci.
Il più delle volte, tuttavia, il vuoto non è realmente vuoto. Spesso è una matassa incomprensibile di tantissime sensazioni ed emozioni, quali ad esempio paura, rabbia, vergogna, noia, desiderio, curiosità,… Tante volte questo senso di vuoto viene confuso con la fame fisica, soprattutto in quegli ambienti in cui il cibo e il soddisfacimento dei bisogni materiali hanno sostituito l’ascolto dei bisogni emotivi.
Sebbene apparentemente le due cose sembrino scollegate, diventare progressivamente più consapevoli di quello che proviamo, riuscire a dare un nome alle emozioni che sentiamo e avvertirle come correlati somatici nel nostro corpo, spesso ci rende meno vulnerabili al giudizio esterno.
È come se fosse un modo per rinforzare i nostri confini personali: se io so cosa provo, tu puoi anche pensare che mi piaccia il gelato al pistacchio, andare a trovare la zia, le magliette di un certo colore, studiare una determinata materia, e magari persino quella determinata persona che pensi sarebbe perfetta per me, ma questa è una tua idea.
Puoi pensare che io sia una persona di valore o una persona che non vale nulla, ma questa è un’informazione su di te, che su di me non dice nulla.
E, finalmente, posso dirti di no, senza perdermi in una matassa di vuoto e vergogna.