“Se sono riuscita a farlo io, potete farlo anche voi.”

Questa è la frase che introduce “Una vita degna di essere vissuta”, la biografia di Marsha Linehan, fondatrice della DBT (Dialectical Behaviour Therapy), considerato il trattamento di elezione per il disturbo borderline di personalità. Un libro che ha ricevuto molte lodi, ma che francamente non ho apprezzato, troppo americano nello stile e, a mio modo di vedere, nel contenuto, nella visione del mondo. La base di questa dedica è la rivelazione , da parte di Linehan, di avere ricevuto una diagnosi psichiatrica ed essere stata ricoverata in istituto a sua volta, in età giovanile. Una sorta di segreto, di non detto, che si è portata avanti per tutta la carriera, perché siamo immersi in un brodo culturale bellissimo, secondo cui se hai subito un ricovero in istituto o bollata con una diagnosi psichiatrica, allora non puoi anche essere una delle menti più brillanti della psicoterapia degli ultimi cinquant’anni. Alla faccia del superare lo stigma sulla salute mentale. Anche se non ho apprezzato troppo il libro, ritengo che non solo ogni paziente psichiatrico, ma anche ogni professionista della salute mentale dovrebbe essere grato a Linehan per avere condiviso la sua storia, per averci restituito quel diritto alla nostra umanità che troppo spesso siamo i primi a negarci.

Tuttavia, da umile signor nessuno di provincia, da mediano della psicoterapia per dirla alla Ligabue, che si sbatte tanto ma non ha certo il talento di Linehan, la frase riportata non mi trova d’accordo. Ne capisco il senso, capisco l’intenzione di empowerment che ci sta dietro. Ma allo stesso tempo, penso che questa retorica del ricondurre il successo unicamente all’individualità della persona rischia di essere patologizzante, dimenticando tutto quanto esiste nel contesto fisico e umano che ci circonda e che spesso è escluso da ciò che possiamo direttamente cambiare. Mi sembra puro bias del sopravvissuto, quel meccanismo che ci porta a guardare la singola storia di successo senza considerare le decine e centinaia di fallimenti che non sono giunti agli onori delle cronache. Un po’ come quando, nella hustle culture che permea le nostre vite, pensiamo che se Jeff Bezos, Steve Jobs e Elon Musk ce l’hanno fatta partendo da zero (immagino, onestamente non ho idea di quale sia la loro biografia), allora ognuno di noi può farcela, col talento e col duro lavoro. Eppure, per un Bezos ci sono centinaia di imprenditori geniali e talentuosi che hanno fallito miseramente, più e più volte. Ricordate il vecchio meme su come sarebbe stata la vita di Steve Jobs se fosse nato in Italia e avesse dovuto perdersi tra mille rivoli di burocrazia che sul lungo periodo gli avrebbero impedito di fondare la sua start-up? Ecco. Forse, se avessi una diagnosi di disturbo borderline e leggessi la frase di Linehan, un po’ mi sentirei empowere, ma un po’ proverei rabbia.

Guardando ad una rassegna dei principali modelli, la psicoterapia sistemica si è concentrata sull’analisi e la cura dei sistemi familiari e dei contesti, ma sempre a un livello micro, prossimale. La terapia cognitivo-comportamentale ha spostato il focus sull’individuo. La psicoterapia psicodinamica si è posta in mezzo tra i due focus. Le psicoterapie di terza generazione, soprattutto l’ACT, hanno a mio avviso il grandissimo merito di avere posto l’accento sull’azione impegnata, che è apertura all’agire nel mondo e apertura a una prospettiva di cambiamento, non solo individuale ma anche sociale, superando una visione passiva dell’accettazione come rassegnazione a un ordine stabilito (paroloni, ma se nella vostra azienda vi hanno proposto un corso di mindfulness, probabilmente sapete di cosa sto parlando). Tuttavia, ogni tipo di psicoterapia ha come proprio limite il focus sull’individuo e l’esclusione delle determinanti sociali a livello macro (la cultura in cui siamo inseriti, il sistema economico, i rapporti di forza esterni), e il rischio sempre presente e sottovalutato è di attribuire all’individuo una responsabilità che è di tipo sociale, culturale, economica. “Se non riesci a stare bene, è colpa tua” è l’altra faccia del “se ti impegni, ce la puoi fare”. Se ce l’ha fatta Marsha Linehan, puoi farcela anche tu. Dimenticando che se Marsha Linehan fosse la regola e non la straordinaria eccezione, non staremmo parlando di lei.

Noi esseri umani siamo sensibilissimi agli ecosistemi in cui siamo inseriti. Questo lo vediamo bene quando vogliamo modificare un’abitudine. Se io sono uno studente e mi accorgo che quando studio in cucina faccio troppi spuntini pur senza avere realmente fame, il modo migliore per cambiare abitudine non è fare appello alla forza di volontà, ma andare a studiare in camera da letto, o meglio ancora in biblioteca. Se decenni di ricerca in psicologia sperimentale ci dicono che gli ecosistemi sono così potenti nell’indirizzare le nostre vite, perché li omettiamo sempre dai nostri discorsi?

Ora, a onor del vero, nel corso del libro Linehan riporta numerosi esempi di come le relazioni con altri essere umani, la solidarietà, l’amore e la cura l’abbiano aiutata a uscire dal suo inferno personale e ad arricchire di senso e significato la propria vita. Gli esempi sono innumerevoli, e sebbene il libro sia zeppo di un’autocelebrazione che talvolta mi è apparsa un po’ stucchevole, non siamo nei territori della hustle culture, dei guru dell’auto-aiuto e dell’impegno personale come unica variabile che conti qualcosa. Eppure, qua e là sembra trasparire l’immagine di Linehan come di una self-made woman, cosa che del resto è. Ma il mito della self-made woman e del self-made man è tale perché sceglie deliberatamente di escludere il contesto dal proprio orizzonte, il terreno che ha permesso ai semi di crescere e la pioggia che l’ha innaffiato. Si tratta a tutti gli effetti di un artificio retorico. Reputo Linehan un genio della psicoterapia, sono sicuro che sia una persona straordinaria, dal carisma e dalla forza di volontà fuori dal comune. Ammiro il suo modello, la sua dedizione e la sua rivelazione autobiografica. Ugualmente, sono sicuro che se una farfalla a Tulsa, Oklahoma, avesse sbattuto le ali diversamente oggi non avremmo la DBT. Diciamo che ho sfruttato una frase iniziale, che per me rimane infelice, per sviluppare un discorso che mi sta molto a cuore.

Non so se tutti possiamo essere salvati, o se tutti possiamo arrivare a vivere “una vita che degna di essere vissuta”. Una parte di me ci spera, ma un’altra parte è convinta che il meglio che possiamo fare molte volte sia rimanere a galla, e va bene così. Rimanere a galla non è un obiettivo che va sminuito, quasi fosse una mezza sconfitta. Se nasci nella terra delle tigri, riuscire a rivedere l’alba ogni giorno è un’obiettivo che ai miei occhi ha dell’eroico. Celebriamo chi riesce a stare a galla, perdoniamo chi non ce la fa, e continuiamo a lottare per entrambi.

Quindi, non ho il talento di Linehan e sicuramente non ne possiedo la dedizione. Ma se un giorno dovessi arrivare a scrivere la mia biografia di mediano della psicoterapia, è vero, riconoscerei che “se sono riuscita a farlo io, potete farlo anche voi” suoni bene come introduzione.

Ma “se siamo riusciti a farlo noi, possiamo farlo anche noi” suoni molto più reale.

E forse anche Marsha Linehan, che oltretutto è maestra zen, apprezzerebbe.