Recentemente mi sto imbattendo ovunque nel concetto di Ikigai. Non so se sia un caso o se ultimamente l’argomento stia andando effettivamente di moda, ma parlarne a mia volta mi offre l’occasione di unire la psicologia ad un’altra cosa che amo, ovvero la cultura giapponese: mi unirò quindi al gruppo.

Ikigai è una parola giapponese, appunto, composta da iki, ‘vivere’, e gai, ‘ragione, significato’. Come si può facilmente intuire, l’Ikigai è traducibile come ‘ragione di vita‘.

In particolare, il concetto è stato studiato in relazione alla cultura dell’arcipelago di Okinawa, famoso in quanto teatro dell’omonima, sanguinosa battaglia durante la Seconda Guerra Mondiale e per essere il luogo al mondo con il maggior numero di centenari viventi. Sulla proverbiale longevità degli abitanti di Okinawa si è scritto e teorizzato tantissimo: non so se la centralità dell’Ikigai nella cultura locale possa avere influito sulla quantità degli anni da loro vissuti, come qualcuno ha ipotizzato, ma è facile immaginare che abbia avuto almeno un ruolo sulla sua qualità.

L’ikigai viene spesso descritto come ‘lo scopo per cui alzarsi al mattino‘, e possiamo immaginarlo come il punto di intersezione tra quattro insiemi:

1 – le cose che ami fare

2- quelle che sei capace di fare

3- quello di cui il mondo ha bisogno

4- ciò per cui puoi ricevere un compenso in cambio

Come si vede dallo schema, accanto all’intersezione centrale ne esistono altre quattro, date dall’incontro di due insiemi soltanto.

Ad esempio, se guardiamo qualcosa che amiamo fare e di cui il mondo ha bisogno, otterremo una missione. Non necessariamente potremmo essere bravi a fare quella cosa, e non necessariamente potremmo vivere di essa. Ad esempio, potrei amare molto i cani, ed essere gratificato da un’attività di volontariato in un canile, anche se ho iniziato da poco e devo fare esperienza.

Se amiamo farlo e ci viene bene, avremo una passione. Scommetto che questa intersezione è piena di stimoli anche per voi che state leggendo. Ad esempio, io amo molto scrivere, ma non è una cosa di cui al momento attuale possa vivere. Attenzione su questo punto: scrivere è sicuramente qualcosa che riempie la mia vita, che reputo assolutamente necessario per me, ma non è un ikigai in senso stretto.

E su questo punto apro una parentesi, perché speso quando si parla di ikigai si tende a considerare soltanto l’intersezione centrale, l’ikigai vero e proprio. A mio parere, le intersezioni con l’insieme delle cose che amiamo fare sono altrettanto importanti per definire ciò che rende significativa la nostra vita, soprattutto in un contesto economico e sociale come quello odierno. Tenete a mente questo concetto, perché quando più avanti parlerò di valori personali e azioni mirate a un azione, avrò in mente sia l’ikigai, che le missioni e le passioni.

Prima di procedere, però, diamo uno sguardo alle due intersezioni rimanenti. Una riguarda le cose che siamo capaci di fare e per cui possiamo ricevere un adeguato riconoscimento materiale: una professione. Anche qui, quanti di noi si sono formati e hanno maturato anni di esperienza solo per trovarsi intrappolati in un percorso lavorativo che odiano? Penso più di quanti la teoria della dissonanza cognitiva permetta di uscire alla scoperto.

Ed infine, abbiamo la possibilità di essere pagati per ciò di cui il mondo ha bisogno, e questo può rappresentare una gratificazione. Faccio qualcosa per te, e ricevo qualcosa in cambio. Non deve necessariamente essere qualcosa che necessita di competenza o amore verso ciò che sto facendo.

Ora, come accennavo prima, dell’ikigai in quanto tale mi importa poco, in questa sede. In un certo senso, quello di raison d’etre, di scopo di vita, è un concetto che già esisteva nella cultura occidentale. Un po’ come la mindfulness, che il più delle volte viene presentata e venduta come un’esotica pratica di esportazione, con buona pace dei filosofi stoici che la insegnavano sotto i portici di Atene già nel 300 a.C….

Ma anche se il concetto di ‘ragione di vita’ in sé non è nulla di nuovo, trovo molto interessante questo modo di concettualizzarlo e rappresentarlo. Trovo che renda estremamente visibile e concreto qualcosa di tradizionalmente fumoso e inafferrabile.

Soprattutto, mi permette di porre l’accento su un altro concetto di cui mi piacerebbe parlarvi: l’importanza dei propri scopi personali e dell’azione impegnata verso di essi, un’idea presente nella psicoterapia delle origini, specialmente di stampo psicoanalitico e psicodinamico, passata forse in secondo piano nella seconda metà del ‘900 all’interno degli approcci cognitivi e comportamentali, e recentemente riscoperta nelle terapie cognitive di terza generazione, prima fra tutti l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy).

Se c’è una cosa che accomuna le varie espressioni con cui la sofferenza psicologica si manifesta, è la disconnessione da ciò che rende la propria vita significativa e degna di essere vissuta. Lo vediamo in modo manifesto nelle depressioni, ma anche nelle ruminazioni ossessive, negli evitamenti fobici, nella dipendenza contestuale e relazionale dei disturbi alimentari.

Accade spesso che in psicoterapia questi temi vengano affrontati in un secondo momento, quasi fossero secondari alla remissione del sintomo, all’incremento della conoscenza di sé, del proprio funzionamento, dei propri schemi, e così via. Talvolta è necessario lavorare in questo modo, perché può essere estremamente difficile identificare il proprio scopo di vita senza prima avere fatto un po’ di pulizia, anche se le cose in studio non sono mai così rigide e schematiche come possono apparire negli articoli! Un buon clinico, però, tiene sempre presente l’esistenza di questo punto, anche quando non lo sta affrontando direttamente.

All’inizio pensavo che sarei riuscito a condensare Ikigai e terapie cognitive di terza generazione in un unico post. Arrivato a questo punto, però, penso sia meglio scompattare i due argomenti. Vi rimando perciò al prossimo articolo, in cui parleremo proprio di ACT e azione impegnata.

E voi, cosa ne pensate di questa concettualizzazione? Avete trovato il vostro ikigai, o qualcosa che riempia le altre intersezioni?
Fatemi sapere nei commenti!